Negli anni Ottanta, in una piccola città del Meridione interno, centinaia di giovani vengono radunati su di un piazzale in periferia. A tutti coloro che hanno meno di vent’anni viene chiesto di fare un passo in avanti: un’impresa, costituita per l’occasione, li assumerà per effettuare una delle operazioni più inquietanti della storia industriale del nostro Paese. A mani nude, senza mascherine né tute protettive, decoibenteranno dall’amianto – in pieno centro abitato – poco meno che l’intero parco rotabile (vagoni ed elettromotrici) delle Ferrovie dello Stato. L’indagine socioetnografica di URiT ricostruisce attraverso le biografie dei sopravvissuti (operai e abitanti del quartiere, molti dei quali gravemente ammalati), le omertà e i silenzi delle istituzioni di controllo e del ceto politico locale: una vicenda apparentemente incredibile, che può essere invece considerata un paradigma delle modalità attraverso le quali alcuni territori, economicamente e socialmente “deboli”, sono stati costituiti in sede privilegiata per la localizzazione di lavorazioni pericolose.
Antonello Petrillo insegna Sociologia Generale e Topografie dello Spazio Sociale presso l’Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, dove dirige URiT, Unità di Ricerca sulle Topografie sociali finalizzata allo studio dei dispositivi di controllo e gestione dello spazio e dei corpi all’interno delle dinamiche globali del tardoliberalismo e delle pratiche di resistenza da esse generate a livello locale.
Autore: Luca Manunza.
Durata: 43’.
Sottotitolo | Capitale, verità e morte in una storia meridionale d'amianto |
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ISBN | 978-88-5753-025-3 |
Pagine | 238 |
Data di pubblicazione | 2015 |
Autore | Antonello Petrillo |
A cura di | Antonello Petrillo |
Collana | Cartografie sociali |
Brand | ![]() |
History | Color sit amet, consectetur adipiscing elit. In gravida pellentesque ligula, vel eleifend turpis blandit vel. Nam quis lorem ut mi mattis ullamcorper ac quis dui. Vestibulum et scelerisque ante, eu sodales mi. Nunc tincidunt tempus varius. Integer ante dolor, suscipit non faucibus a, scelerisque vitae sapien. |
Il Mattino (Salerno), 19 luglio 2015
"Il lavoro che uccide, verità della vergogna Isochimica"
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Giovanni Iozzoli - Carmillaonline.com
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Gaetano Da Monte - dinamopress.it, 14 gennaio 2016
"Il rumore dei corpi feriti"
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Anna Simone - lavoroculturale.org, 18 gennaio 2016
"Isochimica: il silenzio della polvere"
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Fulvio Bufi - Il Corriere della Sera, 17 gennaio 2016
"Amianto. Il sogno del Sud nella polvere"
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Il caffè di Rai Uno, 27 gennaio 2016
"Avellino, morire di amianto"
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Andrea Di Consoli - Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2016
"12-12-69 e le tre bombe di carta"
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Aldo Forbice - Il Giornale di Sicilia, 15 febbraio 2016
"Quel pezzo d'Italia assassinato dall'amianto"
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Gabriele Santoro - minimaetmoralia.it, 1 maggio 2016
"Chiedi alla polvere"
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Pietro Saitta - Il Mulino - Rivisteweb - Fascicolo 1, gennaio-aprile 2016
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Autore: Luca Manunza.
Durata: 43’.
Il documentario costituisce l’estensione narrativa dei materiali di ricerca etnografica raccolti nell’omonimo volume. Girato in presa diretta, esso dà volto e voce ad alcuni dei protagonisti della complessa vicenda Isochimica, approfondendone i tratti più umani e drammatici e mostrandone i differenti punti di vista. Marco Messina ha collaborato alla fase di post produzione. Si tratta, in poche parole, di un vero e proprio “taccuino audiovisivo” che -senza particolari concessioni estetiche- restituisce frammenti di una ricerca durata circa due anni. Nessun montaggio serrato, nessun espediente che renda più accattivanti i 43 minuti di filmato: le interviste sono disposte in sequenza diacronica, seguendo il percorso biografico degli operai (assunzione, tipologia di lavorazione, scioperi e vertenze, chiusura della fabbrica e malattia), integrato con testimonianze degli abitanti del quartiere adiacente all’impianto di scoibentazione dei rotabili, Borgo Ferrovia. Empatia e correttezza etica hanno caratterizzato il rapporto tra i ricercatori e i soggetti di ricerca e ogni attore sociale ripreso è a conoscenza delle finalità del lavoro e consapevole dell’utilizzo della propria immagine. Un documentario di “sociologia visuale” si differenzia da altri prodotti audiovisivi simili per l’uso una serie di “tutele metodologiche” e “nell’esplicitazione di tali tutele” (Roberto Cipriani). Laddove normalmente vengono usati strumenti di finzione cinematografica, utili all’aumento della comprensibilità del messaggio finale (per esempio, creare momenti di enfasi o lavorare su tecniche come il “doppio centro”), nel documentario sociologico, oltre alla ‘finzione’ di distanza dall’oggetto studiato, il ricercatore fornisce solo determinati stimoli specifici all’intervistato, lasciandolo libero di raccontare e raccontarsi senza che gli venga imposto un percorso di narrazione predeterminato. Ne ‘Il Silenzio della Polvere’, si è cercato anche di stimolare la comunicazione non verbale, che si fa carico di dare sostanza e spessore al “potere a volte astratto delle parole” (Erving Goffman); è stato quindi chiesto ad alcuni operai di realizzare le proprie interviste fuori ai cancelli della fabbrica, nello spazio sociale par excellence di tutta la storia, lì dove tutto è iniziato. Ultima, doverosa nota: quest’opera è esplicitamente dedicata dall’autore agli operai di Isochimica e ai loro familiari. A una lettura superficiale, può sembrare che egli, così facendo, tradisca quel mandato di imparzialità e distanza del ricercatore dal proprio oggetto che i canoni della tradizione metodologica ci hanno consegnati; ma resta pur sempre vero che, per quanto le accademie si sforzino di imbrigliarla, la sociologia –come insegnava Pierre Bourdieu- era e rimane uno “sport di combattimento”, e come in ogni sport, lo spettatore/ricercatore prenderà inevitabilmente una propria posizione all’interno dello stadio scegliendo, non senza responsabilità, su quale virage posizionarsi. Anche questo è lo spirito di URiT.